L’ombrosa luminosità della pittura di Giustino Calibè
di Vitaliano Corbi

L’ossimoro è la “figura” dell’arte di Giustino Calibè. Non a caso, anche in una sua breve poesia, pubblicata nel catalogo di una mostra del 1991, troviamo espressioni come “percorsi segnati dal pallido sole della notte” e “assenze temporaneamente definitive”. In quel’occasione egli espone una serie di delicati oli su tavola, dove nello spessore compatto dei bianchi trascorreva, insieme con un mondo di forme e di colori appena sussurrati’ un velo d’ombra, un leggero appannamento della luce, come per effetto d’un respiro che provenisse dall’interno dell’immagine.

In seguito, la pittura di Calibè, passata attraverso vari svolgimenti, che rinnovavano in modo originale l’esperienza materica dell’informale, prese un andamento ciclico, alternando, per così dire, periodi chiari e periodi scuri, fasi caratterizzate dalla ricerca di una luminosità interna alla materia e fasi in cui questa sembrava sprofondare nel buio. Ma anche in questa scansione distribuita nel tempo, che arriva fino ad oggi, è riconoscibile il segno della “figura” che accosta paradossalmente termini opposti. Il giorno e la notte nell’ arte di Calibè non appaiono mai veramente separati. L’artista non ama dividere e contrapporre, a tal punto che per lui non solo la luce e l’ombra accolgono e legano dentro di sé le cose, ma paradossalmente sono esse stesse amiche l’una dell’ altra. Il ciclo della luce è sempre attraversato da diffusi cedimenti d’ombra e quello del buio conosce il palpito di inattesi bagliori. La pittura procede come il fiume della vita, che scorre rimescolando tutto ciò che porta verso la foce, in un “un viaggio di sola andata”.

In questo senso la pittura è sempre un azzeramento. Di classificazioni e di gerarchie, di cose già dette e di valori prestabiliti. Calibè lo avvertì con chiarezza all’avvio degli anni novanta, quando rinnovò radicalmente il suo modo di fare pittura, ripartendo, appunto da zero. Non era un revival di altri azzeramenti (come quello, ad esempio, predicato dai teorici della cosiddetta “pittura – pittura” alcuni decenni fa). Non era di tipo mentale, non rifaceva il verso alle analisi metalinguistiche dell’arte concettuale né al purismo delle innumerevoli varianti neominimaliste. Per Calibè il grado zero della pittura da cui bisognava partire riguardava piuttosto la sfera delle emozioni. Lo spopolamento della scena del quadro annunciava il silenzio necessario al nitido ascolto di una voce.

Da allora il valore di un quadro si misura, per Calibè non dalla sua pretesa di accogliere i colori e i disegni del mondo , ma della capacità di intercettarne i riflessi e le ombre e di avvertire tuttavia l’alone emotivo che accompagna ogni minimo indizio di presenza. A prima vista sembrerebbe che questa capacità si fondi, come s’è già detto, sulla riscoperta dell’informale, rivisitato nel suo strettissimo intreccio segnico e materico. Ma se non c’è dubbio che, riguardando in prospettiva storica gli avvenimenti artistici degli ultimi cinquant’anni, l’ antefatto dell’attuale ricerca di Calibè debba essere riconosciuto appunto nell’esperienza dell’informale, è tuttavia altrettanto evidente come di quest’ultima grande stagione pittorica venga scartato proprio il carattere ultimativo, di estrema e spesso tragica testimonianza esistenziale. E sono scartati, conseguentemente, anche tutto il ciarpame prodotto dall’illusione dell’immediatezza espressiva – per intenderci la facile “gestualità” che crede di potersi sottrarre ad ogni filtro culturale e farsi tramite diretto e privilegiato della soggettività, se non specificatamente delle pulsioni profonde dell’Es – e il torbido, dilettantesco pittoricismo che ha caratterizzato i numerosi ritorni all’informale tentati dall’inizio degli anni ottanta ad oggi.

La ricerca di Calibè continua a svolgersi sotto il segno della misura e persino di un certo pudore espressivo. Forse l’artista vi è indotto della volontà – cui prima s’accennava – di dare ascolto, sulla soglia del silenzio,alle piccole voci, a quelli che egli stesso ha chiamato “languori di vita” e che la pittura può riuscire a registrare solo a patto che sappia mettere la sordina non solo al racconto delle grandi storie, ma anche all’accesso dei lamenti esistenziali. In questo modo, concentrando l’ attenzione su ciò che di sotto sfugge alle nostre prime impressioni, Calibè ha saputo conciliare l’aderenza alla purezza del linguaggio pittorico, indagato quasi al microscopio nella sua avventurosa tessitura materica e segnica, con una delicata ma tenace evocatività in cui, attraverso “il colore dell’ anima”, risuonano le voci contrastanti del mondo.


Bradisismi mentali
di Simona Barucco

Le opere di Giustino Calibè si compongono di stratificazioni dolorose e di magiche suggestioni. Il ricordo è improvvisamente presenza nel respiro breve del colore marcio che naviga faticosamente su superfici trattate come immensi cretti, dove la sabbia vesuviana è strato e substrato di una dimensione sospesa tra tempo e spazio. Come arricchita dalle tonalità pure del colore, la fredda e antica sabbia vesuviana si trasforma, nelle mani di Calibè, in lava bollente ed esplosiva. L’alternarsi di strutture geometriche sottili ed intersecanti contrasta con la ruvida e penetrante superficie del supporto, la quale segna concretamente ogni interpretazione soggettiva.

Presenze primordiali d’antichi fossili sono a volte scoperte per oscure trame del destino. Come reperti archeologici, le forme emergono dalla pittura del fondo e si rivelano con nostalgiche morfologie nel continuo ed inesorabile trascorrere del tempo coprendo, celando e stratificando luce, segui e ricordi. Lunghe lacerazioni orizzontali attraversano le tele. Dinamismi verticali e grandi occhi, come grandi centri, individuano il vero bersaglio dell’ attenzione in una tessitura graffiata sottilmente. All’ interno di queste lacerazioni si avverte la forza aggressiva di una natura mai domata, la stessa natura emotiva che a stento Calibè riesce a contenere in sé stesso: questa forza inespressa costringe l’artista a modificare continuamente la propria cifra stilistica perché il suo è un lavoro sugli elementi primari, è un lavoro sulle origini della terra come materia in continua evoluzione. E’per questo che, tali immagini, sono avvolte in un nero primigenio, nel quale risulta difficile capire cosa s’intravede.

“Bradisismi mentali” è anche un lavoro sulla diversità e sulla somiglianza e sul sottile confine che divide questa differenziazione.

Territori inesplorati, sconosciuti e affascinanti si aprono alla nostra curiosa percezione. Sono territori visibili attraverso gli avvallamenti, le piane incontaminate, le tortuosità dei percorsi d’ acqua e del bruno risalire di colline e montagne che disegnano il globo terrestre in uno spazio incontrollato dalla visione, reso libero e unico nell’approfondita analisi di noi stessi.

Giustino Calibè prosegue la ricerca dell’universo naturale anche in quest’ultimo lavoro. Osservare attentamente le sue immagini è come continuare un viaggio attraverso la cartografia superficiale della vita, attraverso il corpus della natura.

Nelle pieghe e nelle abrasioni della terra, nelle crepe e nelle escrescenze di tale materia, sorvolando i diversificati rilievi epidermici si può riconoscere l’ anima, l’essenza della creatività di Calibè.

E il soggetto si trasforma velocemente sotto i nostri occhi, si svela e si confonde nella sostanza della sua forma, nell’equivoco del punto di vista, nell’assurdo della materia. Si disperdono i contorni, si dilatano i confini della geografia organica e inorganica su cui è catalizzata la nostra attenzione e la dimensione si moltiplica e involve risucchiata dalla massa stessa.

Sono indecifrabili le lacune della nostra sensibilità, i vuoti della nostra mente quando ci confrontiamo con immagini non perfettamente definite, seminascoste dal buio e rese aggressive dalla nuda provocazione. Eppure, questa sorta d’ insicurezza visiva trascina la voglia di conoscenza e d’esplorazione, dilata i margini della percezione e regala emozioni senza tempo.

La mostra “Bradisismì mentali” è un insieme d’elementi, è la sostanza composta e aggregata, è un complesso unitario d’indicazioni sulla struttura della vita, è una raccolta completa di opere che definisce l’identità di una ricerca.

Giustino Calibè valuta e ispeziona ogni possibile accettazione del termine configurando, nel complesso, l’esistenza.


Calibè, dall’ossessione della forma al liciniano spazio della memoria
da Nord a Sud- E.S.I. Marzo 1995
di Gino Grassi

Nato a San Giorgio a Cremano come Massimo Troisi circa quarant’anni fa e rivelatosi artista di complesso talento in Francia (una sua personale è in corso presso la 125, una delle più significative gallerie parigine) Giustino Calibè avrebbe potuto diventare il Botero italiano. Invece il geniale artista campano è passato, attraverso un tormentato iter, da una pittura ossessionata dalle forme e densa di grumi e di materia, ad una ricerca assai raffinata e riduttiva, in cui il segno diventa quasi un ricamo, mentre il linguaggio pittorico, che sembrava condizionato dal grande messaggio di Van Gogh e di De Chirico, si fa meno comprensibile da parte dell’ uomo della strada, ma molto più sottile e più ricco di significati, di allusioni, di sottintesi, di metafore, di silenzi: capaci insomma di parlare all’intelligenza, oltre che al cuore delle persone. Il nuovo discorso di Calibè è quasi completamente fondato su di un’operazione libera nello spazio, in cui l’artista mostra di voler recuperare le radici dei procedimenti che furono alla base dell’arte di Klee e Licini, i pittori che trovarono nella semplificazione, nella poesia e nella più completa libertà d’invenzione l’elemento fondamentale della loro inarrestabile ascesa.

Ne La regola e il caso, e cioè in quella che viene considerata la più originale opera, Filiberto Menna, l’insigne storico dell’arte scomparso da qualche anno, scrisse che è necessario prendere atto, senza illusioni, della condizione di sradicamento in cui si trova l’artista, contemporaneo, assieme (naturalmente) all’intellettuale. Lo spazio estetico è il luogo propizio per un movimento dell’individuo verso la piena realizzazione di se stesso: talchè l’operatività artistica, recuperata allo stato di procedimento, fornisce un modello di comportamento tipicamente auto diretto, in cui è possibile fondare un nuovo rapporto tra soggetto ed oggetto, tra individuo ed ambiente. Nell’ antagonismo tra lavoro costrittivo e lavoro spontaneo, tra economia ed eros, tra efficienza della maturità e gioco dell’infanzia, la dimensione estetica finisce per scegliere sempre i secondi termini e su di essi si fonda il suo scarto assoluto nei confronti del principio di realtà. La dimensione estetica, dunque, a costo di sembrare infantile ed utopica, ci propone un mondo rovesciato, in cui repressione ed alienazione vengono trasformate in libertà e gioia di vivere. Sono passati alcuni anni da quando Menna scrisse il suo saggio e sono mutati anche molti dei parametri dell’ analisi della realtà. Se per il cittadino è scattata l’ora della riconquista degli spazi che gli appartengono, mi sembra ovvio che anche l’artista abbia preso coscienza dell’esigenza di liberarsi dall’attacco dell’ideologia e della tecnica, per procedere sulla strada che lo salvi dal pericolo di ogni possibile manipolazione. Queste premesse mi sembrano più che opportune che il pittore nato a San Giorgio a Cremano è riuscito a far parlare di sé, oltre che per la qualità dei propri nuovi interventi, anche per la perentorietà con la quale s’è presentato al proscenio. Una personalità, direi, che non si trovi per niente in sintonia con un coro che sembra già orchestrato; un protagonista che fa dello stile e dell’ autonomia un metodo essenziale per analizzare referenti e contraddizioni di una società che smarrendo i connotati di originalità, di libertà e genuinità, si piega alla legge dell’ artificio. Mi pare giusto sottolineare che l’influenza dei due giganti dell’arte moderna (Van Gogh e De Chirico ) sul primo Calibè, era stata di tipo subliminale. Lo spettacolo pittorico, nella precedente ricerca dell’artistica si animava di una vita misteriosa, visionaria, apocalittica. Il pittore, tuttavia, dopo aver navigato all’interno del mondo del surreale tra gli strapiombi dell’onirismo, risaliva a valle dando vita, come ho accennato, ad una ricerca densa di umori, popolata da immagini macroscopiche con cui l’ esordiente artista sembrava precorrere Botero. Tutto una magma di colori accesi, in prevalenza rossi e grigi brillanti; un sovrapporsi ossessivo di forme divaricate, per lo più cavalieri bardati e dame imponenti; una coralità di situazioni che offrivano al pubblico visioni apparentemente metamorfiche. Eppure in quelle opere pervase da allucinazioni a da incubi, s’intravedeva già l’esigenza dell’artista di modificare il rapporto tra tempo e spazio, in favore di un maggiore libertà espressiva e dell esigenza di ribaltare la relazione ideologizzata con la realtà. Ma pur continuando a portare avanti un tipo di Surrealismo onirico, solcato da sogni angosciosi e da repressioni, il pittore maturava dentro sé un nuovo atteggiamento; prima, sottoponendo il Mito all’attacco devastante dell’ironia; poi debordando verso l’iconografia lirico – spaziale di Klee e di Mirò e, in un certo senso, verso il lirismo surreale di Licini. Certo, l’artista cui Calibè ha finito per sentirsi più vicino è stato Klee, proprio per quel porsi del grande pittore in un atteggiamento che Argan, riferendosi al geniale artista elvetico, definì di malinconia metafisica, comportamento ipotizzato dal celebre storico dell’arte come sentimento dell’infinitesima piccolezza dell’io, in rapporto a tutto. Ma le fervide immagini del pittore campano non mi sembrano lontane dalle Amalasunte di Licini. Mediante le quali l’ indimenticabile artista marchigiano ci offrì gli ultimi segni del linguaggio dei numeri, che si dissolvono nella lunga notte del tempo. E mi sembra questo il traguardo raggiunto da Calibè: che azzera tutto il suo discorso precedente e compone un proprio poema, costituito da frantumi di esistenza smarriti nello spazio.

Tutto il nuovo discorso del pittore napoletano viene giocato anche sulla relazione ( o meglio l’assenza) del colore; oltre che sulla estrazione del segno. Che nella ricerca attuale di Calibè, graffia la tela bianca o il nitido foglio e si sminuzza in cento e cento microcosmi, dipinti con toni tenuissimi, quasi impalpabili. Come per Licini, per Klee, per Mirò, per tanti altri pittori di dimensioni diverse ma di innegabile forza creativa (che hanno conquistato la dimensione lirica più alta tornando ai temi semplici dell’ infanzia), anche per Calibè l’ immaginario tende ad espandersi nello spazio della memoria in maniera potenzialmente illimitata. Le immagini bianche e quelle appena toccate dal colore si compenetrano, si allontanano, per poi riavvicinarsi in un’autentica osmosi lirica: che sorprende sia per la mobilita e l’integrazione degli elementi della rappresentazione, sia per la trasparenza e la luminosità delle forme – informi limpidissime, quasi cristalline. Attraverso un’operazione prevalentemente mentale e quasi in opposizione di una pittura retinale, Calibè va alla ricerca della dimensione dell’inconscio, il suo modo di osservare la realtà è estremamente stringato e ce ne si accorge nell’osservare la scrittura cui egli ricorre per svelare un immaginario ricco di intuizioni ma abituato a percepire i richiami della memoria. Come dire che l’artista di San Giorgio a Cremano si preoccupa moltissimo di mettere a fuoco un linguaggio che arrivi anche alla comune sensibilità. E che perciò si nutre di segni apparentemente primordiali (e quindi accessibili anche ai non alfabetizzati). Calibè ha reso la propria tecnica così intimamente adatta alla sua visione personale, da poter affidare la traduzione degli impulsi provenienti dalla fantasia onirica: tale da dimostrare che si può ricorrere ad una diversa facoltà visiva, a un altro sguardo, ad un occhio della memoria. Giustamente il critico Pollio cha ha presentato il pittore sul catalogo in occasione di una fortunata mostra toscana, osserva che l’itinerario formale di un siffatto artista è quanto di più affascinante e misterioso cui accostarci, tanto ardua ed intensa è la mutazione dei territori interni tra il reale e l’arte e tra la rappresentazione e la pura invenzione … Insomma, Calibè non fa la differenza tra la realtà fisica e quella psichica. E’ facile osservare infatti come, nell’impegno creativo del pittore campano gli elementi esistenziali, pur determinati, risentano chiaramente di un operazione che và oltre gli stilemi di un’arte di simboli ben identificati. E’ al fruitore dell’opera che sia riuscito ad identificare la semiologia del discorso di Calibè, essendosi immesso nella dimensione poetica creata dall’artista, può riuscire meno difficile venire a capo della dicotomia realtà – apparenza. Ma risolto o non risolto che sia, questo grande problema non si pone soltanto per il pubblico, elemento essenziale dello spettacolo artistico: agita lo stesso pittore. Che pur preferendo sostituire il linguaggio concreto della realtà con quello ipotetico (ma infantile, e perciò poetico) del gioco e della fantasia, sa bene che l’incomunicabilità è un dato ormai accertato dall’umanità contemporanea.
     
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